Esperienza

by Thich Nhat HanhDecember 17, 2021


Sono qui per stare con te,

per piangere con te

la nostra terra saccheggiata

le nostre vite infrante.

Non c’è rimasta che mestizia e pena,

ma prendi le mie mani

e stringile, stringile.

Voglio dire

solo parole semplici.

Abbi coraggio. Dobbiamo avere coraggio,

almeno per i bambini,

almeno per domani.


Il mese dopo l’alluvione,

il ragazzo ha ricevuto solo due libbre di riso

dal soccorso di emergenza.

Stasera mangia cime d’areca e grano marcio.

E non è che uno tra tanti figli,

itterici, con la faccia gonfia.


Ha avuto la dissenteria per una settimana

senza medicine

né speranza.


L’alluvione ha portato via

suo padre,

sua madre,

suo fratello.

La fronte di questo bambino innocente

non porta la fascia del lutto.


Ma dai campi arsi e devastati,

un debole raggio di sole

avvolge la mia anima

nel suo demoniaco lenzuolo.


Ti prego vieni qui

e testimonia

il calvario di tutti i cari

sopravvissuti all’alluvione dell’anno del Drago.


Tieni tra le braccia questa bambina insanguinata.

E’ l’unica della sua famiglia

ad aver avuto la sfortuna di sopravvivere.


Un giovane padre

che ha perso la moglie e quattro bambini

fissa, giorno e notte, il vuoto.

Certe volte ride

una risata di lacrime soffocate.


Ti prego vieni e guarda

il vecchio coi capelli bianchi,

lasciato solo per giorni su un desolato pezzo di terra coperto d’erbacce.

Si inginocchia davanti a un ragazzo sgomento

che gli offre un po’ di riso.

Si inginocchia con amore

al ragazzo che piange:

“Nonno, non inginocchiarti davanti a me.

Ho gli anni di tuo nipote.”


Il messaggio d’amore è stato trasmesso.

Ho di nuovo fiducia nel domani.


Suo marito è morto,

sono morti i suoi figli,

il suo paese è distrutto,

è freddo il suo cuore.

Non c’è scintilla per accendere un fuoco,

perché la morte è qui

su un pezzo di terra esausta.


Non resta nulla,

per l’ultima sopravvissuta,

nemmeno la sua rassegnazione.


Maledice a voce alta la sua esistenza.

“Che fortunate”, dice,

“le famiglie morte tutte insieme.”

Le dico: “Non siamo soli.

Ci sono gli altri,

e dobbiamo ancora soccorrere le loro urla

su questa strada senza fine.

Continuiamo a camminare a testa china.”


L’abitante di un villaggio mi scruta.

Disperato eppure senza paura,

risponde:

“Odio entrambe le fazioni.

Non ne seguo nessuna.

Voglio solo andare

dove mi lascino vivere

e mi aiutino a vivere.”

Vita! Quanta infelicità!


Su questo altipiano in riva al fiume Thu Bon,

mi taglio un dito

e guardo stillare il sangue

e mescolarsi con l’acqua.

Riposa,

tu che sei smarrito.

Trova pace!


A te che sei annegato, io parlo,

e a te sopravvissuto,

e al fiume –

ho sentito lo spazio risuonare

di urla di bambini.

Stanotte voglio sostare a metà strada

tra queste montagne a picco,

e guardarle chine sul fiume,

e ascoltare

i loro eterni racconti.


Qui è il mondo impermanente

ma in continuo flusso.

Stiamo insieme per le generazioni future.

Ogni minuscolo bodhisattva,

a testa china e lacrime nascoste,

con l’inchiostro da scolaro ancora sulle dita,

regge un badile o una zappa

e ammassa la terra per fare un ponte

o per seppellire un cadavere gonfio.


Sotto cappelli di foglie di palma,

con la veste marrone e a piedi scalzi,

non sono loro Quan Yin in tutta la sua gloria,

la sua carità, la sua audacia?


I minuscoli piedi nudi camminano sulle pietre,

le pietre aguzze del dolore e della mestizia.

I piedi scalzi entrano nelle capanne

costruite frettolosamente sulla cenere,

per poter avvicinare i vivi

che hanno raggiunto il limite della loro vita.


Mentre guardo le loro mani,

come morbida, celestiale seta,

tese verso i bambini,

il pianto tace,

e gli occhi della madre,

fissi sui barattoli di latte,

ardono come pietre preziose.


E ancora siedo

davanti alle Porte del Paradiso

serrate

a testa china, in attesa.


Nel vecchio giardino, mi chiedo,

si potrà sentire la fragranza

dei fiori di areca?


Qui,

perché c’è tanto silenzio? –

tanto silenzio,

quando anche gli uccelli della nostra terra ferita

sono svaniti.


Parla forte adesso,

parla a voce alta,

perché udendoti nei più remoti angoli

i nostri uccelli facciano ritorno;

le nostre acque siano di nuovo come gioielli;

la nostra terra come broccato.


Canta,

canta a gola spiegata

perché il Vero Essere possa custodire il Mondo.



Ho scritto questa poesia nel 1964 durante un’operazione di soccorso. Risalimmo con alcune barche il corso del fiume Thu Bon per soccorrere le vittime dell’alluvione e della guerra nella zona di Duc Duc della provincia di Quang Nam. Erano zone molto pericolose. Siamo stati fermati lungo il percorso da entrambe le fazioni in guerra. Quando siamo stati fermati e perquisiti dai nazionalisti, gli ho chiesto: “Che fare se ci fermano i vostri avversari e ci danno scritti di propaganda? Non potrò certo rifiutare.” “Certo, accetta, ma quando arrivi al fiume, buttali.” Chiesi: “E che succede se non faccio a tempo a liberarmene prima di essere catturato da uno di voi?” Non risposero.

Finito il lavoro, rimanemmo qualche giorno con la gente. Gli spari ci passavano proprio sulla testa. Un mio discepolo, saltò nell’acqua da tanto era nervoso. La sofferenza traboccava. Mi sono punto un dito e ho fatto cadere una goccia di sangue nel fiume dicendo: “Questo per pregare per tutti voi che siete periti nella guerra e nell’inondazione.”

Il giorno che siamo partiti, molte ragazze dalla riva ci tendevano i loro bambini, ma sapevamo di non poterne avere cura. Ci sentimmo impotenti, ci mettemmo a piangere.


Raccolta di poesie di Thich Nhat Hanh "Chiamami con i miei veri nomi"

Traduzione di Chandra Livia Candiani